Psicologia Forense

Schermata 2015 05 05 alle 21.59.45I progetti basati sulla creatività e sull’uso delle arti terapie in ambito carcerario sono gradualmente aumentati poiché nel corso degli anni se ne sono apprezzati i risultati e i miglioramenti sulle dinamiche personali di chi è inserito in questi percorsi e sull’impatto sociale di alcuni reati.

Gli strumenti artistici sono ormai diffusi anche nell’ambito penitenziario italiano, dove si sono consolidate esperienze molto importanti a livello nazionale come ad esempio il teatro di Volterra e Rebibbia, realtà rappresentative dell’uso delle tecniche teatrali come strumenti educativi e riabilitativi per i detenuti. Nel corso degli anni sono stati progressivamente attivati tantissimi laboratori e progetti presso istituti penitenziari maschili, femminili e minorili.

 

Ma perché utilizzare le artiterapie e gli strumenti creativi con i detenuti? A cosa servono in realtà, in che modo possono essere utili per portarli a riflettere su loro stessi e sui loro reati e magari comprenderne meglio la gravità? Sicuramente in questo genere di attività gli obiettivi (legge 354) sono sempre e comunque gli stessi, ciò che cambia sono semplicemente i mezzi per farlo.

Difatti, ciò che comunemente avviene durante il periodo detentivo è un progressivo “appiattimento” dei processi creativi e immaginativi della persona (“penso al momento in cui uscirò di qui, ma non costruisco un mio progetto di vita, vivo nell’attesa, parlo solo del processo, delle leggi ingiuste, penso a tutto quello che mi stanno impedendo di fare in questo tempo in cui sono recluso”).

 

Lavorando in carcere non si può fare a meno di osservare e sentire la rabbia e il risentimento che i detenuti provano verso le istituzioni, il sistema giuridico, la società, le persone. Per questi motivi, frequentemente, chi è in cella cerca di nascondere le proprie fragilità e le emozioni non “da duro” mascherando i pensieri e i sentimenti davanti agli altri e soprattutto ai propri familiari. Questo atteggiamento impedisce ancor di più di immaginare una vita “fuori” parlandone con la propria famiglia, e rimane tutto sospeso nella propria testa in modo aggrovigliato e confuso .

Ecco perché quando si lavora in carcere e si propongono per la prima volta esercizi creativi o immaginativi, generalmente, una prima reazione può essere il rifiuto o quantomeno un fortissimo imbarazzo, non tanto per una mancanza di volontà quanto più per non sapere “come” farlo (a detta dei partecipanti).

 

Per quanto riguarda la mia esperienza personale in questi anni nell’ambito del progetto “Dal Personaggio alla persona: il video come strumento di integrazione e crescita dei detenuti”, insieme alla collega Marika Massara, posso dire che ciò che ha continuato a sorprendermi è stata la trasformazione che avviene nei gruppi, che non vuol dire che abbiamo assistito a magici e improvvisi cambiamenti anche perché il tempo dei progetti è sempre molto limitato, ma che si possono osservare delle piccole rivisitazioni nelle modalità di approccio dei detenuti dall’inizio del percorso fino alla fine. Infatti, si passa da una prima fase di spaesamento a un graduale abituarsi e lasciarsi andare all’immaginazione e alla possibilità di raccontarsi. Per quanto riguarda il progetto nello specifico, ciò si traduce nella scrittura creativa, sceneggiatura, drammatizzazione e video ripresa di scene che rappresentano il mondo interno dei detenuti ma anche i loro desideri, le loro aspettative, i problemi. E la difficoltà maggiore per loro risiede nella scarsa tendenza a parlare di questi argomenti con le persone a loro vicine.

 

In questo modo, grazie anche alla guida dei terapeuti, si abituano a tradurre il loro pensiero e i loro bisogni affettivi in qualcosa di oggettivo, tangibile, concreto. Spesso il prodotto audiovisivo che ne scaturisce non è immediatamente comprensibile ad altri, proprio perché la finalità del gruppo non è la creazione di un “bel” prodotto (con uno standard qualitativo alto) ma il processo in sé, il percorso che il gruppo segue per arrivarci. Il lavoro con il video e con la drammatizzazione fa venir fuori le persone e i personaggi per quelli che sono, secondo il validissimo concetto secondo cui “non possiamo fare a meno di essere ciò che siamo”. Nel progetto ognuno ha la responsabilità e la possibilità di dirigere la regia di almeno una storia (per cui si mette in discussione almeno una volta), ma c’è chi si appassiona e cerca di partecipare a più riprese.

 

E’ interessante vedere come ogni partecipante cerca di esprimere pienamente se stesso, senza filtri, e per qualcuno diventa inevitabile inscenare una rapina, un’estorsione, un omicidio, e anche nel video finisce per tornare in carcere perché non riesce a fare a meno di delinquere. E alla fine, nella riflessione finale in gruppo si discute proprio di questo, di quante possibilità si hanno per fare cose diverse nella vita ma poi si finisce spesso per fare la stessa identica cosa e, purtroppo anche gli stessi sbagli. C’è chi approfitta del video per scrivere poesie d’amore, chi legge commosso una lettera ai propri figli chiedendo perdono e dicendo che loro non dovranno mai fare la loro fine e finire in carcere. C’è chi immagina il momento dell’uscita, di riabbracciare l’anziana madre o fare qualcosa di particolarmente gratificante. C’è anche chi, spaventato, immagina che la vita fuori sarà un inferno, che non troverà lavoro, che sarà emarginato dalla società e non troverà nessuno ad aspettarlo. Insieme alla rabbia, sembrerebbe che la paura sia l’emozione più presente in queste loro storie.

 

Il processo creativo è il veicolo con il quale riusciamo a portare fuori il loro mondo interno, che forse potrebbe emergere anche in una seduta di psicoterapia o forse no, perché all’interno delle mura carcerarie la psicoterapia è un intervento dalla riuscita molto limitata, per vari motivi.

Le attività creative e le arti terapie consentono invece una narrazione di sé più ampia e senza filtri, mediata dal “come se”, cioè da quel meraviglioso meccanismo che tutti noi attiviamo quando usiamo metafore e inventiamo storie, che ci fa pensare che quel personaggio non siamo realmente noi ma è “come se” lo fossimo, e questo ci consente di parlare della nostra vita “come se” fosse la storia di altri, in una specie di autoinganno funzionale alla nostra narrazione autobiografica. 

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